T 1 Proemio
Dalle Storie di Tacito
La mia opera prenderà avvio dal secondo consolato di Servio Galba, con
Tito Vinio suo collega. Molti storici, nel ricordare le vicende di Roma lungo
gli ottocento vent’anni dopo la sua fondazione ne hanno parlato con eloquenza
pari al loro spirito di libertà; ma dal tempo della battaglia di Azio, quando,
nell'interesse della pace, convenne consegnare tutto il potere a un'unica
persona, talenti come quelli sono scomparsi. Da allora mille sono stati i modi
di calpestare la verità: prima il disinteresse per la realtà politica, come
cosa estranea; poi la corsa all'adulazione e, per converso, l'odio verso i
dominatori. Nei due casi, tra avversione e servilismo, l'indifferenza verso i
posteri.
Ma è facile rifiutare la cortigianeria di uno storico, mentre la
calunnia prodotta dall'astio trova orecchie ben disposte: perché l'adulazione
implica la pesante taccia di servilismo, nella maldicenza, invece, si profila
un falso aspetto di libertà. Quanto a me, non ho conosciuto Galba, Otone e
Vitellio: quindi né benefici né offese. La carriera politica, iniziata con
Vespasiano e continuata con Tito, l'ho proseguita sotto Domiziano, non lo nego.
Ma chi professa una fedeltà incorrotta al vero, deve parlare di tutti senza
amore di parte né odio. Riservo per la vecchiaia, se la vita vorrà bastare, il
principato del divo Nerva e l'impero di Traiano, tema più stimolante e più
sicuro: fortuna singolare del presente, in cui siamo liberi di pensare come
vogliamo e di dire quel che si pensa.
1.
L’Impero – Le
due date indicate come inizio e fine convenzionali dell'Impero Romano sono
puramente arbitrarie per tre ragioni:
- non vi fu mai una vera e propria fine formale della
Res publica romana[1], le cui
istituzioni non furono mai abolite, ma persero solo il loro potere
effettivo a vantaggio dell'imperatore;
- nei quattrocentoventidue anni tra esse compresi, si
alternarono due fasi caratterizzate da forme di organizzazione e di
legittimazione del potere imperiale profondamente diverse, il Principato, forma di governo
dell'impero in cui, senza abolire le precedenti istituzioni repubblicane,
il principe assumeva la guida dello stato e ne costituiva il perno
politico. Gradatamente rafforzatasi la forma assolutistica con i
successivi imperatori, il principato entrò in crisi con la fine della
dinastia dei Severi nel 235, e si ebbe il Dominato, forma di governo dell'Impero, nella quale
l'imperatore, non più contrastato dai residui delle antiche istituzioni
della Repubblica Romana, poteva disporre da padrone dell'Impero, cioè
nella qualità di dominus. La transizione dalle due forme di
governo, avviata con la fine della dinastia dei Severi, può dirsi
completata nel 285 con l'inizio del regno di Diocleziano, e l'inizio della
Tetrarchia.
- dopo la divisione dell'impero le due parti
continuarono a sopravvivere, l'una sino alla deposizione dell'ultimo
cesare d'Occidente Romolo Augustolo nel 476, l'altra perpetuandosi per
ancora un millennio nell'entità politica nota come Impero Bizantino.
Nel 31 a.C., Ottaviano divenne
arbitro e padrone dello Stato: inaugurò nel 27 a.C. la definitiva forma del suo
principato e governò, con una formula di primus inter pares, pater
patriae, princeps e, soprattutto, augustus, titolo onorifico
conferitogli in quell'anno dal Senato, per indicare il carattere sacrale e
propiziatorio della sua persona. Il regno di Augusto era stato caratterizzato
dal rispetto formale delle istituzioni repubblicane; d’altra parte, il cumulo
di poteri delle diverse cariche
portarono il princeps ad
ottenere un potere tale, che nessun altro uomo prima di lui a Roma aveva mai
ottenuto, aveva posto le basi per una nuova realtà politica: l’Impero.
L’impero con alterne vicende durò
fino al 476, convenzionalmente considerato come data di passaggio tra evo
antico e Medioevo.
2.
L’alto Impero –
È il periodo che va dalla morte di Augusto fino all’anarchia militare.
I primi imperatori, Tiberio,
Caligola, Claudio e Nerone, erano appartenenti alla dinastia Giulio-Claudia. In questo primo periodo fu continuato il
processo di unificazione e romanizzazione dell’Impero: si diffuse in Occidente
il latino e si concesse con parsimonia la cittadinanza romana ai provinciali.
Questo contribuì alla fusione tra
le due anime dell’impero, quella romana e quella ellenica. I confini stabiliti
al tempo di Augusto furono rafforzati: Claudio conquistò la parte meridionale
della Britannia nel 44, Tito conquistò Gerusalemme e la fece distruggere nel
70. Nel complesso in Oriente, mediante una serie di interventi, più o meno
pacifici, i Romani riuscirono ad accordarsi con i Parti e a stabilire una specie di dominazione romano-parta
sull’Armenia, mentre altre annessioni, verificatesi nella stessa epoca, non
furono altro che trasformazioni in province romane di Stati clienti, ossia già
praticamente assoggettati.
L’Impero intanto, a causa della
sua espansione ormai eccessiva, si avvicinava a un periodo di crisi. Fino a
quel momento, nonostante i successori di Augusto non si fossero fatti scrupolo
di far uccidere i personaggi che potevano intralciare lo svolgimento della loro
politica, la vita all’interno dell’Impero si era svolta in una certa calma.
L'Impero Romano arrivò all'apice
della sua potenza nel II secolo, durante i principati di Traiano, Adriano,
Antonino Pio e Marco Aurelio. Alla morte di quest'ultimo, il potere passò al
figlio Commodo, che portò il principato verso una forma più autocratica e
teocratica.
Il potere delle istituzioni
tradizionali si andò indebolendo e il fenomeno proseguì con i suoi successori,
sempre più bisognosi dell'appoggio dell'esercito per governare.
Il ruolo del Senato nei secoli
successivi si ridusse progressivamente, fino a divenire del tutto formale. La
dipendenza sempre più accentuata del potere imperiale dall'esercito condusse a
un periodo di forte instabilità, definito come anarchia militare.
T 2 Elogio di un homo novus:
Seiano
Dalla Storia di Roma di Velleio Patercolo
È cosa rara che i personaggi eminenti non ricorrano ad insigni
collaboratori a tutela delle proprie sorti, come fecero i due Scipioni con i
due Lelii, ponendoli in tutto alla loro pari, e come fece il divo Augusto con
Marco Agrippa e subito dopo con Statilio Tauro, persone alle quali la mancanza
di tradizioni familiari non impedì di essere chiamate a molteplici consolati, a
trionfi, a varie cariche sacerdotali.
I grandi impegni esigono infatti grandi coadiutori; ed è interesse
dello stato che spicchi anche per dignità esteriore chi svolge compiti
indispensabili, e che una posizione autorevole sia di presidio alla sua opera
preziosa.
Seguendo questi tempi, Tiberio Cesare ebbe ed ha tuttora, come
ineguagliabile aiutante delle funzioni imperiali in ogni campo, Elio Seiano,
nato da un eminente personaggio del ceto equestre, e per parte di madre legato
ad illustri e antiche famiglie insigni per cariche pubbliche, con fratelli,
cugini e uno zio materno di rango consolare, ricchissimo egli stesso di zelo e
di lealtà, ed anche dotato di una complessione fisica rispondente al vigore
dello spirito: uomo di una serietà serena, di una giocondità d’altri tempi,
simile nel gestire a persona estranea gli affari, alieno dall’avanzare pretese,
e per questo capace di ottenere tutto, uso a giudicare se stesso al di sotto
della stima tributatagli dagli altri, calmo nell’espressione del volto e nella
vita, insonne nell’animo.
Già da tempo l’apprezzamento della cittadinanza per le virtù di Seiano
procede di pari passo con la stima che ne ha il principe; e non è cosa nuova
per il senato ed il popolo romano considerare tanto più nobile un uomo, quanto
più eccelle per le sue qualità. Infatti coloro che trecento anni fa,
anteriormente alla prima guerra punica, innalzarono ai fastigi più alti Tito
Tiberio Coruncanio, un uomo nuovo, non solo con tutte le cariche politiche, ma
anche con il pontificato massimo; coloro che elevarono al consolato, alla
censura, ai trionfi Spurio Carvilio, di rango equestre, e poi Marco Catone,
anche lui uomo nuovo emigrato da Tuscolo a Roma, e Mummio Acaico; e coloro che
fino al sesto consolato considerarono senza esitare Caio Mario, uomo di bassi
natali, come l’esponente più alto del nome romano; e coloro che tanto credito
accordarono a Marco Tullio da far sì che egli quasi potesse, con il suo
appoggio, procurare le più alte dignità a chi voleva; e coloro che ad Asinio
Pollione nulla negarono di ciò che anche i più nobili avrebbero conseguito a
prezzo di molti sforzi, tutti costoro pensarono che se nell’animo di
qualsivoglia uomo c’è il merito, bisogna dargliene il più pieno riconoscimento.
La spontanea imitazione di questi esempi mosse Tiberio a mettere alla
prova Seiano, mosse Seiano ad alleviare il peso gravante sulle spalle del
principe, e convinse il senato ed il popolo romano a chiamare di buon grado
alla difesa della propria sicurezza l’uomo che per esperienza avevano
conosciuto come ottimo.
a) La dinastia Giulio-Claudia -
Affinché la sua politica fosse continuata anche dopo la sua morte, Augusto
aveva espresso il desiderio che la successione al principato fosse assicurata a
suo genero Agrippa. Essendo questi morto prima di lui, Augusto propose per la
successione il nipote, Marcello. Neppure il secondo designato gli sopravvisse
di conseguenza, alla scomparsa di Augusto, il potere supremo passò a Tiberio[2], suo figlio
adottivo e figlio naturale di sua moglie Livia e del primo marito Claudio
Nerone.
I primi anni del regno di Tiberio
furono pacifici e relativamente tranquilli. Tiberio assicurò il potere di Roma
e la sua ricchezza. Nel 19 fu accusato della morte del nipote Germanico,
amatissimo dal popolo: Germanico dopo aver riportato numerose vittorie sui
Germani, fu inviato dall’imperatore in Oriente, dove però la morte, avvenuta in
circostanze alquanto misteriose. Nel 23 morì suo figlio, Druso minore. Tiberio
si richiuse sempre più in se stesso, iniziando una serie di processi e di
esecuzioni per tradimento. Nel 26 si ritirò nella sua villa di Capri, lasciando il potere nelle mani del comandante della
guardia pretoriana, Elio Seiano[3], che
proseguì con le persecuzioni. Le persecuzioni di Tiberio continuarono fino alla
sua morte nel 37. L’operato complessivo di Tiberio ebbe anche lati positivi: lo
Stato era in buone condizioni finanziarie, mentre all’estero rinsaldo i confini
con la Germania.
Nel 37, alla morte di Tiberio,
molti personaggi che avrebbero potuto succedergli erano stati uccisi.
Tiberio aveva indicato come suoi
successori i nipoti Gaio, detto Caligola (per la sua abitudine di
portare delle calzature militari, o caligae), il suo pronipote e figlio
di Germanico (dai calzari militari, caliga, che era solito portare) e Tiberio.
Il senato, approvato dal popolo, acclamò imperatore Caligola, poichè figlio di Germanico che ancora
godeva di molta popolarità.
Caligola iniziò il regno ponendo
fine alle persecuzioni e bruciando gli archivi dello zio. Presto però si
ammalò: gli storici successivi, probabilmente alterando in parte la verità,
riportano una serie di suoi atti insensati che avrebbero avuto luogo dalla fine
del 37. Il suo ordine di erigere nel tempio di Gerusalemme una statua che lo
raffigurasse, sebbene fosse di normale amministrazione nelle province orientali
(in cui il culto riservato al sovrano aveva funzione di collante
istituzionale), scatenò l'opposizione degli Ebrei. Caligola dotò Roma di due
acquedotti e di un circo.
Nel 41, Caligola morì assassinato
dal comandante dei pretoriani, Cassio
Cherea, in una congiura ordita dai pretoriani che posero sul trono l'unico
membro rimasto della famiglia imperiale, l’altro nipote di Tiberio: Claudio.
Claudio[4] aveva
sempre evitato la vita politica e poco sembrava adattarvisi con il suo
carattere timido e apparentemente debole. Claudio, a lungo considerato un
debole ed un pazzo dal resto della famiglia, fu invece capace di amministrare
l’Impero con responsabile capacità:
·
riorganizzò la burocrazia
·
mise ordine nella cittadinanza e nei ruoli
senatoriali:
·
aggiunse all'Impero molte province orientali.
·
costruì un porto invernale ad Ostia, creando
magazzini per accumulare granaglie e cereali provenienti da altre parti
dell'Impero e da usare nella cattiva stagione
·
compì lavori di prosciugamento che permisero di
valorizzare migliaia di ettari di terreno fino allora incolti;
·
Proseguì la conquista e colonizzazione della
Britannia, conducendo di persona una spedizione e, con una campagna lampo,
portò le legioni romane a una vittoria strepitosa e fondò la città di Londinium,
l’odierna Londra creando nel 43 la nuova provincia. La pacificazione completa
del Paese, però, si sarebbe dimostrata lunga e difficile poiché i druidi continuarono per molto tempo a
nutrire un focolaio attivo di resistenza all’invasore.
La successione al trono fu piena
da intrighi: Claudio aveva avuto un figlio legittimo, Britannico, dalla prima
moglie Messalina che lo tradiva e fu quindi messa a morte. In seconde nozze
aveva sposato, sua nipote Agrippina che, con una serie di intrighi e di
delitti, riuscì a fare adottare dall’imperatore suo figlio Nerone, nato da un
precedente matrimonio. Per favorire il figlio, Agrippina fece uccidere Claudio
e macchinò affinché il Senato esautorasse Britannico.
Nel 54, la morte di Claudio
spianò la strada al figlio di Agrippina, il sedicenne Nerone[5] fu
proclamato imperatore.
Inizialmente, Nerone lasciò il
governo di Roma a sua madre ed ai suoi tutori, in particolare a Seneca.
Divenuto adulto, il suo desiderio
di potere aumentò. Il suo governo dispotico, le spese per mantenere la sua fastosa
corte ed il suo istrionico amore per l’arte drammatica e i giochi, gli
inimicarono la nobiltà senatoria. Nerone fece assassinare tutti quelli che lo
infastidivano, a cominciare da Britannico per finire con la stessa sua madre.
Nerone impiegò parte dei soldi dello Stato per ricostruire nel modo migliore
Roma, dopo l’incendio che devastò la città nel 64, e del quale alcuni
contemporanei gli attribuirono la responsabilità. Durante il suo regno ci fu
una serie di rivolte e ribellioni in tutto l'Impero: in Britannia, Armenia,
Partia e Giudea.
Nell’ultimo periodo di regno
sventò la congiura dei Pisoni ed
eliminò molti oppositori aristocratici ed intellettuali come Lucano, Petronio
e lo stesso Seneca che si uccisero. Malvisto dalla classe militare per
l’uccisione del generale Corbulone, per le sue folli spese che provocarono una
crisi finanziaria, aggravata da una crisi politica, di una tale vastità che
Nerone per la sua incapacità di gestire le ribellioni e per la sua sostanziale
incompetenza divennero rapidamente evidenti cosicché perfino la guardia
Imperiale lo abbandonò e fu costretto a suicidarsi in seguito alla rivolta
delle truppe di stanza in Lusitania che proclamarono imperatore il loro
comandante Galba nel 68.
Nonostante la personalità dei
successori di Augusto, il regime da questi fondato si conservò saldo:
·
il Senato accrebbe le proprie prerogative;
·
numerosi sudditi provinciali furono gratificati
del diritto di cittadinanza, tanto che nella sola capitale il numero dei
cittadini aumentò di circa un milione;
·
furono costruite molte opere pubbliche.
b) Il 69: l’anno dei quattro
imperatori – L'anno dei quattro
imperatori indica un periodo che segue il regno di Nerone, che va dal
giugno 68 al dicembre 69, che vede succedersi sul trono dell'impero romano tre
imperatori, fino a che il potere non giunge a Vespasiano. Si tratta della prima
guerra civile dopo il regno di Augusto.
Alla morte di Nerone, nel 69, si succedettero quattro
imperatori: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano.
Il passaggio dei poteri fu
imposto dall’esercito la compagine sociale più forte. Fu un anno di guerre
civili, intervallati dal regno di tre effimeri imperatori, generali innalzati
al potere dai propri soldati e ben presto detronizzati: Galba fu deposto dai pretoriani e sostituito da Otone, questi, a sua volta, fu
rovesciato da Vitellio, sostenuto
dalle truppe stanziate al Reno. Alla fine trionfò il capo dell’armata inviata
in Oriente per combattere la rivolta degli Ebrei proclamò imperatore il proprio
comandante Flavio Vespasiano, che fu accolto come un salvatore.
T 3 La presa di Gerusalemme
dalle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio
«La città [di Gerusalemme] venne abbattuta dalla rivoluzione, poi i
Romani abbatterono la rivoluzione, che era molto più forte delle sue mura; e di
questa disgrazia si potrebbe attribuirne la causa all'odio di chi si trovava al
suo interno, ai Romani il merito di aver ripristinato la giustizia. Ma ognuno
può pensarla come crede, vedendo come accaddero i fatti realmente.»
Tito in persona abbatté dodici giudei
delle prime file, e mentre gli altri ripiegavano, Cesare li inseguì cacciandoli verso la città,
salvando dalle fiamme i lavori. In questa battaglia fu fatto prigioniero un
giudeo, e Tito ordinò di crocifiggerlo davanti alle mura per generare terrore
di fronte agli altri e costringerli alla resa.
Il muro cominciò a cedere davanti [ai
colpi] del "Vittorioso" - questo è il nome che i Giudei diedero alla
più grossa delle elepoli romane,
poiché distruggeva ogni ostacolo - e i difensori, ormai stremati non solo dai
combattimenti, ma anche dalle notti insonni passate a vigilare [...], ritennero
che fosse ormai inutile difendere questo muro quando ne rimanevano altri due, e
così molti si ritirarono.
[...] Un giorno, mentre i Giudei erano
schierati davanti alle mura e i due eserciti si stuzzicavano con colpi da
lontano, un cavaliere di nome Longino uscì dalle file romane e si lanciò nel
mezzo dello schieramento nemico. La sua carica portò scompiglio tra le file
giudee, dove uccise due dei combattenti più valorosi [...]. Dopo ciò fece
ritorno incolume fra i suoi. Questo gesto di valore gli diede fama, e molti
cercarono di imitarlo.
[...] Io credo che i ribelli a quello
spettacolo avrebbero volentieri cambiato idea se non fossero stati certi che i
Romani non li avrebbero perdonati per tutte le colpe da loro commesse a danno
del popolo. E così alla morte certa che li attendeva, preferirono quella in
combattimento.
Molti barattavano di nascosto le loro
proprietà per una misura di grano se erano ricchi, o di orzo se erano poveri.
Poi si nascondevano nei luoghi più appartati della casa e lo divoravano senza
neppure macinarlo, tanta era la fame, altri lo mettevano a cuocere [...]. Non
si apparecchiava più una tavola, ma si toglievano i cibi dal fuoco ancora
semicrudi e li si faceva a pezzi. Disgraziato lo spettacolo che appariva, con i
più forti che facevano i prepotenti e i deboli si lamentavano. [...] Così le
mogli strappavano il cibo dalle bocche dei mariti, i figli da quelle dei padri
e, cosa molto più dolorosa, le madri dalle bocche dei loro stessi figli, [...]
senza farsi scrupolo di privare loro della vita. E seppure si nascondessero in
questo modo, non restavano nascosti ai ribelli, i quali ovunque piombavano
anche sui loro miseri bottini.
Tito provava compassione per loro,
poiché ogni giorno erano cinquecento o più [...], ma sapeva che sarebbe stato
pericoloso lasciarli liberi, o anche essere costretto a dover sorvegliare e
sfamare tanti prigionieri, costringendolo ad avere altrettanti custodi; ma la
ragione principale di queste crocifissioni era la speranza che a questo
terribile spettacolo i Giudei decidessero di arrendersi [...]. I Romani, spinti
dall'odio e dal furore, si divertivano a crocifiggere i prigionieri in varie
posizioni, e tanti erano che mancava lo spazio per le croci e le croci per le
vittime.
mese di Xanthico (marzo), all'ora nona della notte
l'altare e il tempio furono circonfusi da un tale splendore, che sembrava di
essere in pieno giorno, e il fenomeno durò per mezz'ora: agli inesperti sembrò
di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di
ciò che accadde dopo. Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al
sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre, la porta
orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la
sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con
sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai
profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d'un pezzo, all'ora
sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a
informare il comandante, che salì al tempio e a stento riuscì a farla richiudere.
mese di Artemisio (aprile), apparve una visione miracolosa
cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per
raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno
dei testimoni oculari, dall'altra la conferma delle sventure che seguirono.
Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da
guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città.
Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati
di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver
prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: “Da
questo luogo noi ce ne andiamo”.
Ma ancora più tremendo fu quest'altro
prodigio. Quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al
culmine della pace e della prosperità, un tale Gesù figlio di Anania, un rozzo
contadino, si recò alla festa in cui è uso che tutti costruiscano tabernacoli
per il Dio e all'improvviso cominciò a gridare nel tempio: «Una voce da oriente, una voce da occidente,
una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme e il tempio, una voce
contro sposi e spose, una voce contro il popolo intero». Giorno e notte
si aggirava per tutti i vicoli gridando queste parole, e alla fine alcuni dei
capi della cittadinanza, tediati di quel malaugurio, lo fecero prendere e gli
inflissero molte battiture. Ma quello, senza né aprir bocca in sua difesa né
muovere una specifica accusa contro chi lo aveva flagellato, continuò a
ripetere il suo ritornello. Allora i capi, ritenendo - com'era in realtà - che
quell'uomo agisse per effetto di una forza sovrumana, lo trascinarono dinanzi
al governatore romano. Quivi, sebbene fosse flagellato fino a mettere allo
scoperto le ossa, non ebbe un'implorazione né un gemito, ma dando alla sua voce
il tono più lugubre che poteva, a ogni battitura rispondeva: «Povera Gerusalemme!».
Le gesta dei Romani, padroni del mondo
allora conosciuto, che i Giudei avevano sottovalutati: A spingervi contro i Romani è stata evidentemente la nostra mitezza,
che prima di tutto vi abbiamo concesso di vivere in questa terra e di essere
governati da vostri re, poi vi abbiamo permesso di conservare le vostre antiche
leggi, lasciandovi anche la libertà di regolare non solo i vostri rapporti
interni ma anche quelli esteri. Vi abbiamo poi permesso di esigere tributi per
il vostro Dio e di raccogliere le offerte senza ostacolarvi, con il risultato
che, grazie a noi Romani, siete diventati più ricchi e, con quanto doveva
essere di nostra proprietà, vi siete invece preparati per la guerra contro di
noi!
[...] vi invitai a deporre le armi, nel corso
della guerra fui verso di voi spesso clemente: diedi le dovute garanzie ai
disertori, fui leale verso i supplici, risparmiai molti prigionieri evitando
loro inutili torture, accostai le macchine alle vostre mura contro voglia,
frenai i miei soldati assetati del vostro sangue, e dopo ogni vittoria chiesi a
voi la pace quasi fossi io lo sconfitto.
casa propria, punirò gli schiavi irrecuperabili e terrò con me gli altri
per farne ciò che vorrò.
[I ribelli] ciò che avevano rapinato con
le armi, e io [Giuseppe] credo che, se la presa della città fosse tardata a
venire, essi sarebbero stati capaci di una tal ferocia di cibarsi anche dei
cadaveri.
[...]
Tito scese tra grandi acclamazioni e si
recò a compiere i classici e rituali sacrifici per la vittoria. Presso gli
altari vi era un gran numero di buoi ed egli, dopo averli sacrificati, li distribuì
all'esercito affinché banchettasse. Passò poi con i suoi generali a festeggiare
per tre giorni.
c) La dinastia flavia –
Vespasiano, con cui iniziò la dinastia Flavia, fu un autocrate, accentuò le
tendenze monarchiche con la sua insistenza che gli succedessero i figli Tito e
Domiziano: il potere imperiale non era visto allora come ereditario designò
successori i figli Tito e Domiziano, affermando il principio della trasmissione
ereditaria del potere ed ebbe molto meno appoggio dal Senato dei suoi predecessori
Giulio-Claudii.
Benché di origini modeste, egli
si rivelò un sovrano di notevole levatura
·
riferì la sua salita al potere l'1 luglio,
quando fu proclamato Imperatore dalle truppe, invece del 21 dicembre, quando fu
confermato dal Senato.
·
espulse, negli anni successivi, i Senatori a lui
contrari.
·
liberò Roma dai problemi finanziari creati dagli
eccessi di Nerone e dalle guerre civili.
·
ristabilì la disciplina nell’esercito
scoraggiando le iniziative politiche dei generali
·
riuscì a raggiungere un’eccedenza di bilancio ed
a realizzare progetti di lavori pubblici, aumentando le tasse in modo
drammatico (talvolta più che raddoppiate).
·
Commissionò il Colosseo e costruì un Foro
il cui centro era il Tempio della Pace.
I suoi generali soffocarono ribellioni
in Siria e Germania:
·
in Germania riuscì ad allargare le frontiere
dell'Impero
·
gran parte della Britannia fu portata sotto il
dominio di Roma
·
estese la cittadinanza romana agli abitanti
della Spagna.
·
rinsaldò le frontiere, aumentando il numero delle
legioni stanziate in Siria e in Giudea.
Nel 70, durante il suo impero,
terminò la lunga guerra contro gli Ebrei, con l’opera di repressione della rivolta
dei Giudei, in Palestina, la distruzione di Gerusalemme da parte delle truppe
di suo figlio Tito, secondo le direttive di Vespasiano: gli abitanti della
città furono in parte massacrati e in parte venduti come schiavi. A Roma si
celebrò questa vittoria con un intero anno di festeggiamenti e con la
costruzione di un arco in onore di Tito; i Giudei, sopravvissuti alla strage,
si dispersero per tutto l’Oriente.
Tornato a Roma nel 71, Tito fu
associato al potere dal padre. La dinastia dei Flavi proseguì, dopo la morte di
Vespasiano, con i suoi due figli, Tito e Domiziano, succedutisi l’uno dopo
l’altro sul trono.
Durante il suo breve regno, Tito
governò con clemenza e si occupò della costruzione di opere pubbliche, portando
a termine il Colosseo. Ma il suo regno non può certo dirsi fortunato:
·
Roma bruciò ancora una volta
·
un’eruzione del Vesuvio provocò la distruzione
di Ercolano e Pompei, catastrofe in cui trovò la morte Plinio il Vecchio, capo della squadra navale dell’Occidente e dotto
compilatore di trattati scientifici.
·
la peste decimò gli abitanti di Roma e costò la
vita allo stesso Tito
Tito fu pianto perché aveva
cercato di fare il bene del suo popolo: la sua generosità nella ricostruzione
dopo le tragedie, lo rese molto popolare. Tito fu molto fiero dei suoi
progressi nella costruzione del grande anfiteatro cominciato dal padre. Egli
tenne la cerimonia inaugurale nell'edificio non ancora terminato durante gli
anni 80, con un grandioso spettacolo in cui si esibirono 100 gladiatori e che
durò 100 giorni. Tuttavia il Colosseo fu completato solo durante il regno di
Domiziano.
Tito morì nell'81 a 41 anni e ci
furono voci che fu assassinato dal fratello impaziente di succedergli.
Nell’81 gli successe il fratello Domiziano[6] che incominciò bene il suo regno;
fece erigere monumenti e istituì i Ludi
Capitolini; purtroppo di fronte a una rivolta scoppiata nell’esercito
ordinò repressioni estremamente rigorose, dando inizio a un regime di terrore
che lo rese inviso al senato per l’accentuazione da lui data agli aspetti
assolutistici del Principato.
Anche sul fronte esterno le cose
non andavano meglio; nonostante i successi della guerra britannica, finita
nell'84, e la vittoria sui Catti, la Guerra
Dacica (85-89) finì col pagamento dell'alleanza con Decebalo.
Nell'89 Domiziano dovette
reprimere la ribellione di Antonino Saturnino a Magonza. La parte finale del
suo regno fu macchiata dalla condanna dei filosofi e, nel 95, dalla
persecuzione contro i Cristiani.
Nel 96 Domiziano fu vittima di
una congiura, ordita da sua moglie Domizia Longina e dai prefetti del pretorio.
Con Domiziano i rapporti già tesi
tra la dinastia flavia ed il senato si andarono sempre più logorando. Le cause
di questo difficile sodalizio furono dapprima la divinizzazione del culto
personale dell'imperatore secondo modalità tipicamente ellenistiche ed in
seguito il divorzio dalla moglie Domizia, di estrazione senatoria.
T 4 Il mangiare smodato dei
romani
Da Memorie di Adriano di Marguerite
Yourcenar
Mangiar troppo è un vizio romano, sono stato sobrio con voluttà.
Ermogene non ha dovuto modificar nulla del mio regime, se non forse frenare
l'impazienza che m'ha sempre fatto divorare ovunque, a qualsiasi ora, un cibo
qualsiasi, come per troncare d'un colpo le esigenze della fame. Un uomo ricco,
che non ha mai conosciuto altre privazioni che quelle volontarie, o non ne ha
sperimentate se non a titolo provvisorio, come uno degli incidenti più o meno
eccitanti della guerra e dei viaggi, dimostrerebbe cattivo gusto se si vantasse
di non satollarsi. Impinzarsi i giorni di festa è stata sempre l'ambizione, la
gioia, e l'orgoglio naturale dei poveri. Mi piaceva l'aroma delle carni
arrostite, il rumore delle marmitte raschiate, nelle festività militari, e che
i banchetti al campo (o ciò che al campo costituiva un banchetto) fossero ciò
che dovrebbero essere sempre, un compenso rozzo e festoso alle privazioni dei
giorni di lavoro; tolleravo discretamente l'odor di fritto nelle pubbliche
piazze al tempo dei Saturnali. Ma i conviti di Roma m'ispiravano ripugnanza e
tedio tanto che se alle volte - durante un'esplorazione o una spedizione
militare - ho visto la morte vicina, per farmi coraggio mi son detto che almeno
sarei liberato dei pranzi. Non mi farai l'ingiuria di prendermi per un
rinunciatario qualsiasi: una operazione che si verifica due o tre volte al
giorno, e serve ad alimentare la vita, merita certamente le nostre cure.
Mangiare un frutto significa far entrare in noi una cosa viva, bella, come noi
nutrita e favorita dalla terra; significa consumare un sacrificio nel quale
preferiamo noi stessi alla materia inanimata. Non ho mai affondato i denti
nella pagnotta delle caserme senza meravigliarmi che quella miscela rozza e
pesante sapesse mutarsi in sangue, in calore, fors'anche in coraggio. Ah, perché
il mio spirito, nei suoi giorni migliori, non possiede che una parte dei poteri
di assimilazione di un corpo? A Roma, durante i lunghi pranzi ufficiali, mi è
accaduto di pensare alle origini relativamente recenti del nostro lusso; a
questo popolo di coloni parsimoniosi e di soldati frugali, satolli d'aglio e di
orzo, improvvisamente immersi dalla conquista nelle delizie della cucina
asiatica che ingozza manicaretti con la voracità rustica dei contadini. I
nostri Romani si rimpinzano di cacciagione, s'inondano di salse, e
s'intossicano di spezie. Un Apicio va fiero della successione di portate, di
quella serie di vivande piccanti o dolci, grevi o delicate, che compongono
l'armonica disposizione dei suoi banchetti; e passi ancora se ciascuno di tali
cibi fosse servito separatamente, assimilato a digiuno, sapientemente
assaporato da un buongustaio dalle papille intatte. Ma serviti così,
giornalmente, alla rinfusa, in mezzo a una profusione banale, essi formano nel
palato e nello stomaco di chi mangia una confusione detestabile, nella quale
odori, sapori, sostanze perdono il loro rispettivo valore, la loro squisita
identità. Un tempo quel povero Lucio si dilettava a prepararmi qualche piatto
raro; i suoi pasticci di fagiano, dove prosciutto e spezie vanno sapientemente
dosati, erano il risultato di un'arte, esattamente come quella del musico o del
pittore; eppure, rimpiangevo la carne pura e semplice del bel volatile. In
Grecia se ne intendono di più: quel vino che sa di resina, quel pane al sesamo,
quei pesci girati sulla griglia in riva al mare, anneriti irregolarmente dal
fuoco, insaporiti qua e là da un granello di sabbia che scricchiola sotto i
denti si limitavano a placare l'appetito, senza sovraccaricare di complicazioni
il più elementare dei piaceri. Ho assaporato, in qualche bettola di Egina o al
Falero, cibi così freschi che restavano divinamente puliti a onta delle dita
sudice dello sguattero che mi serviva; così sobri ma al tempo stesso così sostanziosi
che pareva contenessero, nella forma più condensata possibile, un'essenza di
immortalità. Anche la carne, arrostita la sera dopo la caccia, conteneva questa
qualità direi quasi di sacramento, ci riportava indietro, alle origini selvagge
delle razze; così il vino ci inizia ai misteri vulcanici del suolo, ai suoi
misteriosi tesori: bere una coppa di vino di Samo, a mezzogiorno, col sole
alto, o piuttosto sorseggiarlo una sera d'inverno, quando si è in quello stato
di fatica che consente di sentirlo immediatamente colare caldo nella cavità del
diaframma, e diffondersi nelle vene ardente e sicuro, sono sensazioni quasi
sacre, persino troppo violente, per la mente umana. Non le ritrovo altrettanto
genuine quando esco dalle cantine numerate di Roma, e mi spazientisce la
pedanteria dei conoscitori di vigneti. Così, con un gesto ancor più devoto,
bere l'acqua nel cavo delle mani o direttamente alla sorgente, fa sì che
penetri in noi il sale più segreto della terra, e la pioggia del cielo. Ma,
oggi, anche l'acqua è una voluttà che un malato come me deve concedersi con
misura. Non importa: anche nell'agonia, mescolata all'amaro delle ultime
pozioni, mi sforzerò di sentirne sulle labbra la freschezza insapore.
d) Il brillante periodo degli
‘adottivi’ - Alla morte di
Domiziano, i congiurati proclamarono imperatore il vecchio e saggio senatore Cocceio
Nerva[7], molto
stimato come anziano senatore e noto come persona mite e accorta. Nerva
acconsentì e fu acclamato imperatore in Senato da tutte le classi concordi sul
suo nome.
Durante il suo regno, breve ma
significativo, apportò un grande cambiamento: il "principato adottivo".
Questa riforma prevedeva che l'imperatore in carica in quel momento dovesse
decidere, prima della sua morte, il suo successore all'interno del senato fece
sì che i senatori fossero responsabilizzati. Egli scelse, mentre era ancora in
vita, il proprio successore affiancandoselo nel governo. Questo sistema di
trasmissione del potere per associazione anticipata sostituì quello della
affiliazione, fino allora approvato dal Senato, e per un secolo consentì
all’Imperatore in carica di designare il proprio successore.
L’uomo scelto da Nerva fu Traiano con cui cominciò la dinastia di
principi illuminati, gli Antonini, il cui saggio governo fece del II secolo l’Età d’oro dei Romani, sebbene nel corso
del secolo, in seguito al crescente processo di unificazione dell’Impero, Roma
perse la sua centralità. Tutti gli imperatori del II sec. privi di
discendenza, scelsero come successori persone effettivamente capaci, evitando
contrasti interni e congiure di palazzo.
L'ultimo periodo della pax
romana può essere considerata l'età più felice dell'impero romano: tramite
la politica di pace instaurata e la prosperità derivatane il governo imperiale
attirò consensi unanimi, tanto che Nerva ed i suoi successori sono anche noti
come i cinque buoni imperatori.
Lo sviluppo economico e la
coesione politica ed ideale, raggiunta anche per l'adesione delle classi colte
ellenistiche, che contraddistinsero il secondo secolo, non devono, comunque,
trarre in inganno, in quanto da lì a poco l'impero comincerà a mostrare i primi
sintomi della decadenza.
Traiano[8], generale di
origine spagnola, dotò le province di un’amministrazione e d’un complesso di
funzionari pari a quelli della capitale. Durante il suo regno, l’Impero
raggiunse la sua massima estensione: Traiano , condusse una
campagna in Dacia che si concluse con
l’annessione di quel territorio ai domini di Roma. Il trionfo, che in
quell’occasione egli celebrò, fu memorabile. Il bottino era di tale entità da
consentire la distribuzione a trecentomila cittadini di più di seicento
denari per ciascuno. I festeggiamenti che ne seguirono durarono per parecchi
mesi; in essi vennero sacrificati, per i giochi del circo, diecimila fiere e
altrettanti gladiatori. Subito dopo Traiano partì per l’Oriente, dove occupò
l’Armenia, la Mesopotamia e la Siria spingendosi fino al Golfo Persico. Ma la
resistenza dei Parti lo obbligò a ritirarsi alla destra dell’Eufrate senza aver
potuto assicurare a Roma il controllo della via delle Indie. Colpito da una
grave malattia, Traiano morì, mentre era in viaggio verso Roma.
Il successore di Traiano fu il
nipote adottivo Adriano[9], Cosciente dei
rischi connessi a un’eccessiva espansione dell’Impero, Adriano si decise a
consolidare le conquiste del predecessore: egli restituì ai Parti la
Mesopotamia e rese all’Armenia l’indipendenza, pur conservando il diritto a
mantenere guarnigioni nei punti nevralgici. La pace sembrava così assicurata
quando i Giudei, già insorti una prima volta al tempo della spedizione di
Traiano contro i Parti, si ribellarono nuovamente tenendo impegnate per tre
anni le forze imperiali. Domati gli Ebrei, Adriano proseguì nella sua opera di
consolidamento delle frontiere, facendo costruire in Bretagna il muro che porterà il suo nome, vallum Adriani, grande sbarramento
difensivo tra l’Inghilterra e la Scozia. Migliorie vennero pure apportate al
vallo che sorgeva tra il Reno e il Danubio, tanto che i territori del Baden e
della Svevia si trasformarono in un vero bastione difensivo contro i Germani.
Per tutto il periodo del suo
regno lottò contro la diserzione della popolazione dalle campagne, diserzione
che provocava la concentrazione nella città di una plebe esigente e irrequieta
che andava ad accrescere la massa dei disoccupati. Uomo di grande cultura e di
una profonda rettitudine cultore di filosofia, poesia e arte, in cui espresse
la completa fusione della cultura greca con quella romana, fu tollerante nei
confronti dei cristiani e promosse la costruzione di molte grandi opere
architettoniche.
Ad Adriano succedette un altro
provinciale, di origine gallica, nel 138, Antonino Pio[10].
Dopo di lui, nel 161 furono
nominati imperatori i fratelli Marco Aurelio[11] e Lucio Vero. Dal 165 i Parti
invasero la Siria, mentre i confini settentrionali furono violati dalle tribù
germaniche dei Quadi e dei Marcomanni che furono respinti, tra il
167 e il 168, dai due imperatori. Nel 167, poi, le tribù germaniche dei Paesi
danubiani invasero la pianura del Po e Marco Aurelio per allontanare
l’incombente pericolo dovette rassegnarsi ad arruolare anche i briganti e i
gladiatori e a utilizzare fino all’ultimo le risorse del tesoro imperiale. Nel
169 Lucio Vero morì e Marco Aurelio restò unico imperatore. Marco Aurelio,
imperatore-filosofo, fu avverso ai cristiani e li perseguitò. Uomo di cultura,
seguace della filosofia stoica, scrisse un’opera in 12 libri scrisse i Pensieri per me stesso, un’opera nella
quale sono enunciati principi che oggi diremmo di carità, umiltà e fratellanza
umana. Nel 180 morì di peste lungo la frontiera danubiana dove era accorso per
fronteggiare di nuovo i Germani.
Commodo, figlio di Marco Aurelio, salì
diciannovenne al trono. Diversamente dal padre instaurò una violenta
repressione antisenatoria. Inviso alla classe militare per aver patteggiato la
pace con i Quadi e i Marcomanni, fu vittima di una congiura ordita dal prefetto
del pretorio Leto. (192). Il figlio di Marco Aurelio incrinò l'equilibrio
istituzionale raggiunto e con il suo atteggiamento dispotico favorì il
malcontento delle province e dell'aristocrazia. Il suo assassinio diede il via
ad un periodo di guerre civili.
Con Commodo, finì la dinastia
degli Antonini.
Alla morte di Commodo Dopo
un breve periodo di anarchia militare in cui si avvicendarono per breve tempo,
eletto dal senato, il generale Elvio Pertinace, che i pretoriani
assassinarono ed offrirono il regno al miglior offerente, il senatore Didio
Giuliano, fino a quando l’esercito stanziato sul Danubio proclamò
imperatore il comandante Settimio Severo.
e) La dinastia dei Severi –
gli aspiranti imperatori devono passare attraverso il consenso militare. I
pretendenti alla più alta carica sono di due tipi:
·
italici, cioè persone che fino ad allora hanno
formato la classe dirigente dell'impero e che cercano il consenso dell'esercito
attraverso forti donazioni.
·
militari provenienti dalle zone periferiche e
che durante la loro carriera hanno già guadagnato il consenso del loro
esercito.
Nel 192 riesce ad acquistare il
titolo di imperatore Pertinace. Tre mesi dopo Dido Giugliano riesce a farlo
eliminare dai pretoriani in cambio di forti donazioni. Intanto dalle periferie
arrivano Albino, Nigro e Settimio, tre militari che aspirano a prendere il
posto di Giugliano. Sarà Settimo Severo, fondatore di una nuova dinasta, a
essere nominato nuovo imperatore dal Senato.
Settimio Severo dedicò la maggior
parte degli anni del suo regno a guerreggiare contro i Germani e i Parti, senza
riuscire a porre un freno ai loro attacchi: contro i Parti, conquistò Ctesifonte e ricostituì la provincia di
Mesopotamia (199-202). Per risanare la crisi economica interna, centralizzò il
sistema delle corporazioni, controllate direttamente dallo Stato, e dimezzò la
quantità di argento nelle monete per emetterne una quantità maggiore.
Alla sua morte furono nominati
imperatori i due figli Antonino,
detto Caracalla e Geta: essi, in un
primo momento, regnarono insieme, ma presto Caracalla uccise il fratello e
restò solo sul trono, governando in modo arbitrario e dispotico; nel 202,
tuttavia, seppe prendere una saggia decisione: un importante Editto, la Constitutio Antoniniana, accordò
il diritto di cittadinanza a tutti gli uomini liberi dell’Impero. Caracalla tentò di conquistare consenso con una politica espansionistica ottenendo
buoni risultati contro gli Alamanni nel 213 e facendosi oggetto di esaltazione
religiosa. Nel 217, Caracalla morì in seguito a una congiura, ordita dal
prefetto del pretorio Macrino, che gli succedette.
Deposto Macrino da una congiura militare, il potere tornò ai Severi con
il giovane Eliogabalo. Sacerdote in Siria del dio solare El Gabal,
dedicò ogni energia a promuovere la propria religione.
Nel 222, Eliogabalo fu ucciso dai pretoriani, e gli succedette il cugino Alessandro
Severo il quale cercò di conciliarsi il senato, ma, per il suo
atteggiamento pacifista, fu avversato dai militari, che lo uccisero nel 235.
La decadenza dell’Impero era
ormai vicina.
[1] Res publica romana - La
Repubblica Romana (Res Publica Romana) fu quello Stato formato dalla città di
Roma e dai suoi territori di conquista nel periodo tra il 509 a.C. ed il 27
a.C., quando la sua forma di governo era una Repubblica oligarchica.
La
sua fine coincide con la fine di un lungo periodo di guerre civili che segnò la
fine della forma di governo repubblicana a favore di quella del Principato.
La
Repubblica rappresenta una fase lunga, complessa e decisiva della storia
romana, che da piccola città stato divenne la capitale di un grande e complesso
Stato, formato da una miriade di popoli e civiltà differenti.
In
questo periodo si inquadra la maggior parte delle grandi conquiste romane nel
Mediterraneo ed in Europa, soprattutto tra il III ed il II secolo a.C..
All'inizio
della sua storia il territorio della repubblica coincideva con quello della
città. L'espansione militare portò il territorio della repubblica, nel 27 a.C.,
ad includere tutta la penisola italiana, le isole di Sardegna, Corsica e
Sicilia, gran parte della Gallia, dell'Iberia, della penisola balcanica, le
regioni costiere dell'Asia Minore e del Nord Africa, l'Egitto.
I poteri erano assegnati a due consoli e al pontifex maximus. Con la crescita dello
stato romano fu necessaria l'istituzione di altre cariche che costituirono le
magistrature. Per ognuna di queste cariche venivano osservati due principi:
·
l'annualità,
ovvero l'osservanza di un mandato di un anno,
·
la collegialità ovvero
l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno
dei quali esercitava un potere di mutuo veto
sulle azioni dell'altro.
Tra
i magistrati un’importante distinzione era quella tra:
·
magistrati cum
imperio (consoli, pretori e dittatori) cui erano affiancate delle speciali
guardie, i littori.
·
magistrati sine
imperio, (tutti gli altri);
Il
secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di
eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale
differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano i
comizi centuriati, in cui il peso
nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo che rendeva
preponderante il peso delle famiglie patrizie. Ciononostante il peso della
plebe fosse accentuato rispetto al periodo monarchico, in cui esisteva un solo
organo assembleale (i comizi curiati) costituito da soli patrizi. L'accesso
della plebe all'esercito sancito dalla riforma centuriata spinse il ceto
popolare a pretendere maggiori riconoscimenti, che nell'arco di due secoli vide
tra l'altro la costituzione della magistratura di tribuno della plebe, eletto
dal concilio della plebe.
Il
terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età
della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie
(Patres) ed ex consoli, aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai
magistrati, indicazioni che poi divennero vincolanti. Approvava inoltre le
decisioni prese dalle assemblee popolari.
Esisteva
inoltre la carica di dittatore, che
costituiva un'eccezione all'annualità e alla collegialità. In periodi di
emergenza (sempre militari) un singolo dittatore era eletto con un mandato di 6
mesi in cui aveva da solo la guida dello stato. Eleggeva un suo collaboratore
detto maestro della cavalleria.
Caduto in disuso dopo il periodo delle grandi conquiste, il ricorso a questo
incarico tornerà ad essere praticato nella fase della crisi della repubblica.
[2] Tiberio
si era messo in evidenza nelle campagne militari contro i Germani. Augusto lo aveva
quindi richiamato in patria dandogli incarichi di governo e raccomandandolo al
senato come suo successore. Il senato stesso lo proclamò imperatore, nonostante
egli avesse chiesto di potersi ritirare a vita privata.
In
politica estera Tiberio fece presidiare i confini settentrionali dal nipote
Germanico che sconfisse più volte i Germani (14-16).
Preoccupato
della popolarità di Germanico, lo inviò in Oriente per affrontare i Parti e poi
lo fece probabilmente uccidere (19), perdendo il suo prestigio presso il
popolo. Tiberio iniziò così una serie di persecuzioni nei confronti dei suoi
avversari e poi si ritirò a vita privata nella sua villa di Capri. Affidato il
potere a Seiano, prefetto del pretorio, tornò a Roma e lo fece uccidere
poiché aveva tramato di usurpare il trono (31).
[3] Seiano consolidò il proprio potere; nel 31 fu
nominato console insieme a Tiberio e sposò Livilla, nipote dell'Imperatore, ma
la sua potenza divenne eccessiva e l'Imperatore nello stesso anno lo fece
mettere a morte, insieme a molti dei suoi amici.
[4] Claudio rafforzò l’apparato
burocratico e lo affidò alla segreteria imperiale di cui facevano parte anche
alcuni liberti e ammise in senato anche cittadini delle province, iniziandone
il processo di assimilazione all’Impero romano che si svilupperà con i suoi
successori. In politica estera conquistò la parte meridionale della Britannia
(44), dove sorse il primo nucleo della città di Londra (allora Londinium).
[5] Questi appena
diciassettenne, era sotto la tutela della madre e di due esponenti del senato,
Afranio Burro, prefetto del pretorio e il filosofo Seneca, suo
precettore.
Ben
presto Nerone si liberò di Britannico, fece uccidere la madre e mandò in esilio
Seneca. Alla morte di Burro governò circondato da seguaci fidati, assumendo atteggiamenti
da sovrano assoluto e mandando a morte i suoi nemici. In politica estera
ottenne un successo contro i Parti e impose il protettorato di Roma
sull’Armenia.
Nel 64
gran parte di Roma fu distrutta da un incendio, da cui Nerone prese pretesto
per incolpare i cristiani (furono uccisi gli apostoli Pietro e Paolo forse
negli anni 66-67). Corse però voce che Nerone stesso avesse provocato
l’incendio, per fare spazio al suo grande palazzo, la Domus Aurea.
[6] Domiziano, combattendo contro la
popolazione germanica dei Catti, occupò alcune regioni oltre il Reno e le
organizzò nelle nuove province della Germania Superiore e Inferiore. Combatté,
senza sconfiggerla, contro la popolazione della Dacia (all’incirca
l’attuale Romania) governata dal re Decebalo, e rafforzò il dominio
romano in Britannia. Riformò l’amministrazione delle province controllando più
strettamente l’operato dei governatori locali.
[7] Nerva
restaurò le finanze dello Stato, e diede inizio a quella politica assistenziale
verso le classi meno abbienti che caratterizzò gli imperatori del II sec. Nel
97 adottò, designandolo successore, Traiano, comandante delle truppe della
Germania Superiore.
[8] Di famiglia
senatoria e di origine spagnola (primo imperatore non italico), Traiano divenne imperatore nel 98,
alla morte di Nerva. In politica estera, tra il 101 e il 105 combatté i Daci
costringendoli alla pace e facendo della Dacia una provincia romana. Tra il 114
e il 116 anche l’Armenia e la Mesopotamia diventarono province romane. Governò
d’accordo con il senato e promosse una serie di provvedimenti sociali tra cui
l’abolizione delle tasse arretrate per le province e l’istituzione di una
"cassa di risparmio" per i prestiti ai piccoli contadini. Per suo
volere furono costruite ingenti opere in Italia, Spagna e Africa, tale
attività, unita alle pesanti spese militari, aggravò la situazione finanziaria.
[9] In Britannia, tra
il 122 e il 127, fece costruire il Vallo di Adriano, una fortificazione di 117
km, per difendere la provincia dalle incursioni dei popoli settentrionali.
All’interno dell’Impero favorì la colonizzazione delle terre incolte e creò un
efficiente corpo di funzionari. Compì numerosi viaggi di ispezione, cultura e
piacere nelle diverse province dell’Impero. Tra il 132 e il 135 fece reprimere
l’insurrezione ebraica di Simone Bar Kocheba.
[10] Attento
amministratore, concesse sgravi fiscali, diede impulso al sistema stradale e
all’edilizia. Praticò con convinzione la religione tradizionale (da cui il
soprannome “il Pio”). All’estero rafforzò i confini facendo costruire in
Britannia il Vallo di Antonino.
[11] Nel 175 dovette
reprimere in Oriente la rivolta di Avidio Cassio che si era fatto proclamare
imperatore. Tornato a Roma, celebrò il trionfo sui Germani e associò al potere
il figlio Commodo. In politica interna Marco Aurelio cercò l’appoggio del
senato e, con un’accorta politica finanziaria, riuscì a sostenere le forti
spese militari.
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